Perdere.
A nessuno piace. Ma che cosa vuol dire, perdere?
Come quasi tutto, attribuiamo a un concetto un significato che deriva dalle situazioni di cui abbiamo esperienza. Si perde un portafoglio. Si perde un orecchino su una spiaggia. Si perde un rapporto. Il lavoro. La fiducia. Una gara sportiva. Una scommessa. Peso. Appetito. Controllo…
Il concetto è abbastanza chiaro: in qualche modo, perdere ha a che fare con qualcosa che c’era -o che poteva esserci- e invece non è più. Scompare in qualche modo dal nostro radar e dalla nostra capacità di entrare in contatto con questo qualcosa, questo qualcuno.
A nessuno piace perdere. Sarà per questo che riusciamo a mettere in campo, come individui e società, ragionamenti e comportamenti complessi, contorti e disfunzionali, pur di negare la dimensione sottostante il perdere, cioè la definitività.
Quanto spaventa tutto ciò che è definitivo? Quante persone sono in scacco matto e accettano situazioni e relazioni tossiche, perché la paura di perdere -una persona, un lavoro, una posizione, un ruolo- prende il sopravvento?
Invece ci si rintana, spesso, in routine che magari hanno anche l’apparenza di una qualche socialità. Risultando in realtà gusci sempre più asfissianti dove prevale l’individualismo.
Il marketing lo sa. E sa che conquisterà il pubblico se saprà far coincidere il consumo con un giudizio di valore percepito come positivo dal consumatore. In altre parole: se compri quel prodotto, è perché sei, per esempio, “generoso”, “etico”, “attento al pianeta”.
Fate caso alle keyword delle varie pubblicità. E poi chiedetevi se voi -o le persone che conoscete e che acquistano quei prodotti- sono come le descrivono quei trenta secondi di pubblicità.
Nessun ambito è al riparo da questa sorta di “fuga dalla realtà”.
Nemmeno le Arti Marziali.
La pratica di una disciplina aiuta a forgiare una identità e una personalità. Riesce a far emergere caratteristiche della nostra personalità che spesso avevamo dimenticato o di cui non eravamo a conoscenza.
Riesce, in altre parole, ad attivare davvero un percorso di miglioramento.
Ma allo stesso tempo, esattamente come tutte le altre dimensioni umane della nostra vita, può diventare una bolla in cui va in scena una vita irreale. Un avatar etereo fatto solo di sentimenti perfetti e di imperturbabilità. Un’oasi in cui il perdere, la cruda realtà del definitivo, in fondo è stemperata dietro tanti bei discorsi e un “ma sì, in fondo va tutto bene”.
E invece no, non va tutto bene. Non sarebbe reale. Esattamente come dire che “va tutto male”.
Non va tutto bene se la pratica non trasmette, nel modo più leggero possibile e col sorriso, l’esistenza del definitivo.
Si parla tanto, correttamente, del fatto che una disciplina come l’Aikido promuova il superamento di una visione duale. E’ così. Ma per iniziare a comprendere la verità di questa affermazione occorre l’esperienza forte della dualità.
L’allenamento formale propone un modello di movimento. Principianti o meno, una proposta tecnica pone un solco tra il modello e la goffaggine con cui la gente prova a ripeterlo.
Le tecniche o generano squilibrio, movimento e immobilizzazione o proiezione, oppure no. Un colpo va a segno, oppure no. Una caduta non ha conseguenze sulla struttura muscolo-scheletrica solo se è ben eseguita. Diversamente…Beh, ognuno ha memoria sul suo corpo di questo, no?
La superficialità con cui (non) si affrontano questi temi porta generalmente a parlare di “efficacia”.
Ma l’efficacia è il dito dietro cui ci si vuole nascondere per non vedere il vero problema. E cioè l’accettazione della nostra realtà. Che è una realtà in cui la negazione della definitività ci rende ciechi.
Pensiamo di scopare le nostre insicurezze e i nostri fallimenti sotto il tappeto dell’immagine della tecnica perfetta, fingendo di ignorare che la perfezione tecnica non è la garanzia di non perdere.
Proviamo a pensare allora, quando pratichiamo, che quando il compagno ci porta a terra e ci blocca, quel momento lì potrebbe essere un “per sempre” e non soltanto una transizione durante uno scambio di ruoli.
“Sì, mi sta tirando la leva ma fra 10 secondi mi rialzo e sono io che la faccio a lui”.
Quando perdiamo il nostro equilibrio, il controllo del nostro movimento e delle nostre articolazioni…Proviamo a metterci dentro l’accettazione di aver perso davvero.
Mettiamo dentro ciò che nella giornata, nella settimana, nella vita abbiamo perso.
Forse lì inizia il cambiamento. Forse lì inizia la disciplina e finisce la pratica sportiva.
Forse lì si vince sul serio.
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